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Attraverso parole
I fatti parlano da soli? Non necessariamente. Quando si tratta di fatti storici, poi, grande rilevanza assume l’interpretazione dell’accaduto da parte dei contemporanei, e degli studiosi a seguire. Esattamente 800 anni fa, accadde un fatto, in una città sul delta del Nilo chiamata Damietta. Francesco da Assisi, che dieci anni prima aveva istituito una forma di vita religiosa basata sulla povertà, carità e fraternità, si recò dal sultano al-Malik al-Kamil, nell’ambito della quinta crociata. Nell’immediato, il fatto non suscitò grande interesse, anzi: Francesco non convertì il sultano e nemmeno ne uscì martire; solo in seguito se ne apprezzò lo straordinario significato profetico.
Fu questo, tuttavia, un chiaro esempio di come Francesco intendeva il dialogo, come avrebbe scritto due anni dopo nel capitolo 16 della Regola non bollata:
“I frati poi che vanno fra gli infedeli, possono comportarsi spiritualmente in mezzo a loro in due modi. Un modo è che non facciano liti o dispute, ma siano soggetti ad ogni creatura umana per amore di Dio e confessino di essere cristiani. L’altro modo è che, quando vedranno che piace al Signore, annunzino la parola di Dio”.
Che cosa racconta quel fatto agli uomini di oggi? A questo interrogativo cercherà di rispondere l’undicesima edizione del Festival Francescano, che si terrà a Bologna dal 27 al 29 settembre 2019.
Nel vocabolario ecclesiale, la parola “dialogo” appare un neologismo di Papa Paolo VI, che la introduce nella lettera enciclica Ecclesiam Suam (6 agosto 1964). Il testimone fu poi colto da san Giovanni Paolo II, con un gesto che parve eclatante: il 27 ottobre 1986, invitò (non a caso) ad Assisi per la prima volta i rappresentanti di tutte le grandi religioni mondiali, in uno storico incontro che diede vita allo “Spirito di Assisi”. Anche fatti recenti parlano di dialogo. All’inizio di febbraio di quest’anno, per la prima volta un Papa, Francesco, si è recato nella penisola arabica (dove peraltro il suo Vicario apostolico è il frate cappuccino Paul Hinder). Ad Abu Dhabi, Papa Francesco e il Grande Imam di Al-Azhar hanno firmato il Documento sulla Fratellanza Umana, nel quale si legge:
“Il dialogo tra i credenti significa incontrarsi nell’enorme spazio dei valori spirituali, umani e sociali comuni, e investire ciò nella diffusione delle più alte virtù morali, sollecitate dalle religioni” [Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune del 4 febbraio 2019].
Uno strumento che appare efficace, nella quotidianità di oggi, per superare il sentimento di diffidenza nei confronti di chi riconosciamo altro da noi e aprirci al dialogo, è l’alfabetizzazione religiosa [Alberto Melloni (a cura di) Rapporto sull’analfabetismo religioso in Italia, Il Mulino 2014].
Più in generale, è possibile trovare un terreno di dialogo comune nel paradigma dell’ospitalità, molto presente nella Bibbia e in altri testi sacri. Abramo, patriarca riconosciuto dalle tre religioni monoteistiche, incarna la figura esemplare di ospitalità nei confronti dello straniero. Egli accoglie nella sua tenda tre sconosciuti, come se avesse dinanzi Dio [Gen 18, 1-5]. Se, per riprendere un appello ecumenico recente, dobbiamo “restare umani”, l’inospitalità appare come un atteggiamento evidentemente dis-umano: non sono in gioco solo comportamenti verso gli altri, gli stranieri; è in realtà, messo in discussione il nostro statuto di umanità.
A volte, lo straniero risiede in noi stessi, e il dialogo interiore diventa faticoso, inconcludente e influenza negativamente le nostre azioni. Il grande psicologo Carl Gustav Jung ha definito “Ombra” l’insieme delle possibilità di esistenza respinte dal soggetto come non proprie, poiché considerate negative. Anche qui: un dialogo profondo e sincero con noi stessi può arricchirci, aiutandoci ad assimilare quanto sembra negativo in una sintesi psicologica più matura.
Da un punto di vista interpersonale, poi, spesso si usa la parola come espediente sottile per mettere l’altro alle strette, per mostrare una superiorità volta ad annullarlo, renderlo inoffensivo o, astutamente, a servircene. Il dialogo non è fatto per convincere né per convertire. Non va confuso con la negoziazione o la ricerca di consenso. Si tratta di un percorso vibrante, impegnativo e anche esistenzialmente rischioso, ma che è scritto proprio all’interno dell’esperienza di fede, nascendo questa dall’incontro con l’Altro che,nella sua misericordia, ci viene a cercare.
È questo l’insegnamento di San Francesco. Come si ricava dai Fioretti (che traducono in poesia il messaggio del santo), egli riusciva a parlare al lupo e alle rondini, al vescovo e al sultano d’Egitto; insomma, parlava la lingua dell’altro.
Ne deriva un’indicazione metodologica, per questa edizione del Festival Francescano sul tema del dialogo. Non si affronterà la questione da un punto di vista teorico: un approccio che troppo spesso conduce a “un altruismo a basso prezzo”. Al contrario, si cercherà di mettere in atto prove di dialogo, su argomenti che interessano tutti. Non solo, dunque, dialogo tra le religioni, bensì confronto tra generazioni, culture, generi, discipline. Nella pratica, privilegeremo il dibattito costruttivo, recuperando la forma della narrazione e dando molto spazio a esperienze e testimonianze di dialogo. Lontani dalle corride mediatiche alle quali siamo oramai purtroppo abituati e ancor di più dai “selfie monologhi” che imperversano sui social, la nostra manifestazione cercherà di essere una cornice adeguata per un confronto tra posizioni anche molto distanti tra loro, e che per dialogare arrivano a pagare prezzi anche molto alti.
Per rendere nuovamente possibile l’incontro fra persone, occorre ritornare ad usare parole che siano cariche di senso e gravi di responsabilità. “Attraverso parole” posso incontrare l’altro e “attraverso parole” per incontrare l’altro: così intendiamo spiegare il dia-logo al Festival Francescano.